mercoledì 28 febbraio 2018

La consultazione pubblica sulla PAC post 2020 : c' è da compiacersi?

di MICHELE LODIGIANI  

 


La newsletter dell’Accademia del 12 luglio scorso rilanciava un comunicato Ansa che riferiva della conferenza “PAC – dite la vostra!”, nel corso della quale sono stati illustrati i risultati della consultazione pubblica sul futuro della PAC promossa dalla Commissione Europea.
Nell’occasione il Commissario UE all’Agricoltura Phil Hogan, secondo quanto riporta il comunicato, esprimeva così il proprio compiacimento: “I cittadini europei vogliono cibo sano e di alta qualità, agricoltori che fanno di più per l’ambiente e il clima e più investimenti per mantenere vitali le aree rurali” – e ancora – “Due terzi degli agricoltori vogliono far di più per ambiente e clima e questo mi ha sorpreso positivamente”.

Con la consultazione è stato avviato il percorso volto a definire le strategie della PAC dopo il 2020; la conferenza citata ne ha costituito la seconda tappa, cui ne seguiranno altre che dovrebbero portare all’approvazione dei nuovi regolamenti entro marzo 2019 e quindi alla loro entrata in vigore dal 1° gennaio 2020. Essa pertanto dovrebbe rappresentare, visto il ruolo istituzionale che formalmente le si attribuisce, una sorta di pietra angolare su cui poggerà la nuova PAC, che difficilmente potrà essere elusa, e tanto meno rimossa, in fase deliberativa. Tutto bene dunque? Stiamo assistendo ad un virtuoso esempio di democrazia diretta? Direi di no! Vediamone i motivi.
La prima perplessità riguarda l’opportunità stessa di una consultazione “popolare” sulla politica agricola, un tema che richiede competenze specifiche e non può certo essere affidato ai pareri (quando non alle emozioni) di “cittadini qualunque”, per quanto rispettabilissimi. Si dirà che sono proprio i cittadini che, indistintamente attraverso le loro tasse, sostengono economicamente la PAC, ed è vero. Per contro l’agricoltura non è certo l’unico settore sovvenzionato: si è mai data una consultazione pubblica per definire la politica dei trasporti, quella energetica o altre non meno generosamente sostenute dalle tasche dei contribuenti? C’è, in tutto ciò, scarso rispetto per il nostro settore, la cui valenza economica è assai poco considerata: in caso contrario difficilmente si riterrebbe importante e condizionante il parere del primo che passa, invitato a dare indicazioni assai specifiche sugli obiettivi che dobbiamo porci, sulle tecniche che è virtuoso utilizzare, sui vincoli a cui dobbiamo sottostare.
In secondo luogo vi è un problema di metodo, anzi tre. Primo: il questionario proposto era costituito in grande prevalenza da domande chiuse, alle quali si poteva rispondere soltanto scegliendo una o più opzioni già formulate. Questo consente di orientare facilmente i risultati, ed è proprio quello che, consapevolmente o meno, è avvenuto in questo caso. Un esempio? La prima domanda del questionario verteva sulle “sfide” che dovrà affrontare la PAC. Fra le sei opzioni proposte tre si riferivano a problematiche sociali, due alla salvaguardia ambientale, una alle tendenze di consumo, nessuna (!) alla funzione primaria dell’agricoltura: produrre cibo a sufficienza. Per altro questo concetto non è del tutto trascurato, esso infatti compare fra le risposte opzionabili alla domanda “Quali ritiene siano i contributi più importanti degli agricoltori nelle nostre società?”, dove però risulta largamente soccombente rispetto alla risposta prima classificata: “Tutelare l’ambiente e il paesaggio”. Secondo: se il questionario viene diffuso “urbi et orbi” e non su un campione mirato della popolazione, difficilmente i dati che esso restituisce corrispondono al vero. Essi tutt’al più descriveranno (ma perfino questo non è scontato) l’opinione di coloro che rispondono al questionario, cioè di una frazione non solo ridotta ma certo non rappresentativa degli interessati: i dati ottenuti, dunque, andrebbero statisticamente riparametrati, operazione che in questo caso è stata fatta soltanto riguardo ad alcune macrodistorsioni, ad esempio cassando i questionari multipli (cioè inviati dalla stessa persona o organizzazione). Terzo: è buona regola che chi esegue il sondaggio e chi ne è il committente siano soggetti diversi; difficilmente, infatti, il committente riesce ad evitare il rischio della autoreferenzialità e ad avere quella terzietà necessaria ad ogni tipo di analisi, soprattutto se, come in questo caso, l’oggetto della ricerca in qualche misura implica surrettiziamente anche una valutazione di merito sui risultati ottenuti dallo stesso committente.
Non sorprende quindi, alla luce delle considerazioni appena fatte, che gli esiti della consultazione risultino piuttosto bizzarri ed anziché riflettere la realtà ne restituiscano un’immagine distorta. Qualche numero, fra quelli che si possono trovare nel corposo report di 320 pagine (e fortunatamente nella sintesi di 5 pagine) al link della Commissione Europea (qui) : - i questionari ritornati sono stati 322.912: numero cospicuo, ancorchè irrisorio se confrontato con la popolazione della UE che supera i 500 milioni (dato Eurostat), o con il numero delle aziende agricole che supera i 12 milioni (dato censimento dell’agricoltura Eurostat 2010); - il 96,89% di essi afferisce a privati cittadini, il 3,11% a operatori professionali o a organizzazioni (di tutti i settori): al di là delle intenzioni dei promotori, è evidente che nel determinare le strategie della PAC post 2020 “uno vale uno”; - il 7,18% proviene da operatori del settore agricolo, il 92,82 % no: il dato, di per sé sconcertante, lo diviene ancor più considerando che il questionario sembrerebbe ricomprendere nel termine “operatore del settore agricolo” (nella versione in inglese “involved in farming”, coinvolto in agricoltura) non soltanto chi, a vario titolo, lavora in un’azienda agricola, ma anche i moltissimi (tecnici, fornitori, burocrati, ecc.) che gravitano attorno al settore. Indipendentemente dall’interpretazione autentica del dato la lettura speculare che se ne può dare è semplicissima: il 92,82% di quanti, attraverso la consultazione, condizioneranno la prossima PAC non ha alcuna competenza in agricoltura! - Il 45,57% dei questionari proviene dalla Germania, seconda classificata la Francia, con il 12,51%, sul podio anche l’Italia con l’11,90%; a seguire gli altri 25 Paesi, di cui ben 19 incidono nelle risposte per meno dell’1%. Due curiosità: alla consultazione ha partecipato anche il Regno Unito, ormai poco legittimato a dire la sua sulla PAC post 2020; 126 questionari non provengono da alcuno dei 28 Paesi che fanno parte della UE e vengono ricompresi nella generica categoria “altri”: forse anche a 126 apolidi si è data l’occasione di “dire la loro”?.
Volutamente non si è qui voluto entrare nel merito degli esiti della consultazione; i limiti di metodo d’altronde ne inficiano l’attendibilità ed essi sono in gran parte come ce li si poteva immaginare a priori, condizionati da una visione del settore tipica di chi sta in città, ad una distanza culturale siderale dalle campagne che la circondano (nella compilazione del questionario, fra le tante domande nessuna si riferiva a dove risiedesse l’interrogato: sarebbe stato un dato interessante). E’ un vero peccato, perché un serio momento di verifica sulle future strategie della PAC sarebbe stato davvero necessario. Anziché interrogare indiscriminatamente i cittadini europei si sarebbe potuto, e dovuto, interrogarsi sul perché gli obiettivi della PAC in corso, per altro pressochè identici a quelli che presumibilmente caratterizzeranno anche la prossima (che sostanzialmente non differiscono neppure dalla precedente), siano stati in grandissima parte disattesi, sul perché la politica agroambientale nei fatti si traduca soprattutto in un grande produzione di complesse autocertificazioni di dubbia attendibilità e di nessuna reale incidenza sull’ambiente, sul come l’auspicata semplificazione abbia potuto trasformarsi nel delirio burocratico con cui gli agricoltori sono costretti ogni giorno a confrontarsi. Si sarebbe inoltre potuto, e dovuto, affrontare questioni davvero strategiche: le tecnologie e le infrastrutture per l’impiego dell’acqua, l’impoverimento in sostanza organica dei terreni, le prospettive aperte nel campo dell’editing genetico dal sistema CRISPR e molte altre. Di tutto ciò nella consultazione non si fa cenno, come d’altronde nella corposa documentazione preparatoria, dove invece si fa largo sfoggio di termini modaioli, immaginifici ed eleganti quanto generici e vuoti di contenuto: l’agricoltura, si dice, dovrà essere “smart” (intelligente), “resiliente” (cioè in grado di riorganizzarsi superando le avversità), “vibrant” (vitale), dovrà essere in grado di creare “bridges” (ponti) fra molteplici obiettivi. Che significa? C’è qualcuno che invece vorrebbe un’agricoltura stupida, rigida, poco reattiva ed isolata?
A che scopo, allora, tutto ciò? Si tratta di democrazia diretta o, piuttosto, di ricerca di consenso a buon mercato, di partecipazione simulata e soltanto rituale, di sofisticato marketing autoreferenziale utile ai “grands commis” comunitari per giustificare il proprio ruolo e la propria esistenza? Qualunque fosse l’intenzione dei proponenti, il compiacimento di Hogan appare fuori luogo, soprattutto a chi ha una visione nobile della missione dell’Europa nel mondo, ancora crede nel ruolo centrale dell’agricoltura, ha reale consapevolezza della fragilità dell’equilibrio ambientale. Vogliamo provare a cambiare rotta?





Michele Lodigiani

Agronomo, Imprenditore Agricolo e membro dell' Accademia dei Georgofili. E' stato presidente Confagricoltura Piacenza.

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